Emendamento alla tesi 4 “L’ITALIA E LA SUA CRISI. IL PROGETTO DELLA CGIL”
4^ TESI
L’ITALIA E LA SUA CRISI. IL PROGETTO DELLA CGIL
1.
In questi ultimi decenni le condizioni di vita e di lavoro della maggioranza della popolazione sia in Italia che a livello internazionale sono peggiorate.
In Italia un dato su tutti può dare la profondità del divario che si è prodotto in questi decenni tra i padroni e la classe operaia. La parte del reddito nazionale che va ai salari è passata dal 56,4 % del 1980 al 40% nel 2004 mentre la quota destinata ai profitti è cresciuta nello stesso periodo dal 21,6% al 28,6%. Negli ultimi 40 anni la ricchezza netta del paese è aumentata da 2 a 5 volte rispetto al Pil, ma questo aumento ovviamente non ha avvantaggiato tutti allo stesso modo. L’80% più povero della popolazione, cioè sostanzialmente tutti i lavoratori e i pensionati e buona parte della piccola borghesia detenevano il 43% della ricchezza nel 1989, nel 2000 non arrivavano al 36% cioè la stessa cifra del 5% più ricco. All’estremo opposto l’un per cento più ricco della popolazione aveva il 10% della ricchezza totale nell’89, mentre nel 2000 ne aveva il 17%.
2.
C’è una continua pressione nelle aziende per aumentare i ritmi e accettare peggioramenti nelle condizioni di lavoro, con la conseguente crescita vertiginosa di infortuni, malattie professionali, stress e disagio mentale. Come se non bastasse a questi peggioramenti vanno sommate l’erosione, anno dopo anno, di conquiste sociali fondamentali come sanità, pensioni e istruzione pubblica.
I profitti fatti in questi anni dai padroni non sono il frutto di investimenti e sviluppo della ricerca ma dell’aumento della produttività del lavoro. Per i padroni non è mai abbastanza e, se devono ringraziare il Governo Berlusconi che in questi 4 anni ha cercato di saziare i loro appetiti, non dobbiamo scordare che questa situazione è anche il risultato di quanto fatto dai Governi di centro sinistra negli anni ‘90, che si sono fatti portatori delle politiche antioperaie dei banchieri europei e del Fmi.
3.
Continuiamo a sentirci dire dai padroni che senza aumento della competitività del paese nel quadro internazionale non c’è futuro, cioè che se vogliamo stare meglio domani, dobbiamo continuare a fare sacrifici. Ma i risultati di vent’anni di questa politica sono esattamente l’opposto: nel 2005 l’Italia è ufficialmente in recessione dopo anni di stagnazione alternati a crescite asfittiche che nulla hanno portato nelle tasche della classe operaia.
Oltre 600mila posti di lavoro sono a rischio, oltre 200mila lavoratori sono in cassa integrazione (20mila solo alla Fiat), il 41,3% in più rispetto allo stesso periodo del 2004, le aziende in crisi sono aumentate del 38% in un anno passando da 2.500 a 3.267 e nel settore del tessile si calcolano circa 55mila esuberi. La precarizzazione del lavoro ha raggiunto livelli insopportabili, meno di un lavoratore su 10 alla prima assunzione, ha una qualche possibilità di vedere regolarizzata la propria posizione lavorativa, gli altri sono alla mercé di un mercato del lavoro che sempre più assomiglia a un vero e proprio caporalato. Degli oltre 5 milioni di lavoratori precari esistenti nel paese la quasi totalità, che siano collaboratori a progetto, interinali o contratti a tempo determinato poco importa, si trovano a svolgere mansioni sostitutive di lavoratori dipendenti senza i più elementari diritti o senza la possibilità di poter sperare in un futuro più stabile. Il loro lavoro viene pagato in media il 30% in meno del minimo contrattuale, senza copertura sanitaria, infortunistica, pensionistica, di maternità o di ferie pagate.
4.
Disastrosa è anche la situazione di quei “fortunati” che ce l’hanno un lavoro stabile. La perdita di potere d’acquisto dei salari è drammatica, sempre più famiglie fanno fatica ad arrivare non alla fine del mese ma a metà mese. Lo scorso autunno l’Ires-Cgil ha pubblicato una ricerca che spiega che un operaio di medio livello ha perso circa il 10% del proprio potere d’acquisto: una stima al ribasso perché la ricerca si basa sull’inflazione “reale” calcolata dall’Istat. Se consideriamo anche l’arrivo dell’euro e il fatto che i contratti vengono in media rinnovati dopo due anni dalla scadenza, possiamo tranquillamente dire che in questi anni i nostri salari hanno perso circa il 20% del loro potere d’acquisto.
5.
Tra il 2000 e il 2004 la produzione industriale è calata del 3,8%. L’Italia è sempre stata un’economia di trasformazione, fortemente legata ai mercati esteri e alla necessità di esportare. È quindi particolarmente significativo il fatto che la quota italiana sul mercato mondiale che nel 1995 (spinta dalle svalutazioni della lira) era arrivata al 4,6%, sia scesa al 2,9% nel 2004. Contemporaneamente la bilancia commerciale è tornata in passivo (-1,5 miliardi di euro nel 2004). Il significato di queste cifre è chiaro: l’industria italiana è stata spazzata via dai mercati esteri e ora viene minata anche su quello interno. La crisi italiana mette a nudo i miti e le falsità della propaganda degli scorsi anni (non solo della destra, ma anche del centrosinistra). Primo fra tutti, il mito dell’euro che, si diceva, avrebbe messo l’economia italiana al riparo dagli scossoni dell’economia mondiale. In passato l’industria italiana difendeva i suoi prodotti attraverso le ripetute svalutazioni della lira che servivano a rilanciare le esportazioni e proteggevano il mercato interno (ovviamente a spese dei consumatori e dei redditi fissi che venivano erosi dall’inflazione). Oggi però la lira non c’è più e la svalutazione non è praticabile. L’abc dell’economia spiega che nel capitalismo se un’economia più arretrata viene aperta alla penetrazione di economie più avanzate, subirà una inevitabile desertificazione produttiva. Gli esempi sono innumerevoli, basta guardarsi attorno o aprire un libro di storia: il Mezzogiorno d’Italia dopo l’unificazione; le economie del terzo mondo che sono state “dollarizzate” (Argentina, Ecuador) e in generale tutti i paesi che in questi anni sono stati sottoposti alle “aperture” decise dal Wto.
6.
Ora si fa un gran parlare del calo di produttività, cercando di puntare il dito contro i salari “eccessivi” dei lavoratori italiani. Ma le cifre dicono che i primi responsabili sono i padroni, i quali non hanno investito se non per delocalizzare le fabbriche. Secondo Fazio (governatore della Banca d’Italia), in Italia i privati destinano all’attività di ricerca e sviluppo lo 0,5% del Pil contro l’1,7% della Germania e l’1,4% della Francia. Sono invece 870mila i posti di lavoro spostati all’estero, di cui circa un terzo in Europa orientale e in Asia.
7 .
I problemi dei lavoratori non possono più attendere. Abbiamo bisogno di un programma di rivendicazioni adeguato alla fase che stiamo attraversando. Un programma che sappia rispondere con proposte concrete ai problemi che tutti i giorni i lavoratori si trovano ad affrontare nelle lotte per difendere il proprio posto di lavoro. Tutti questi fattori ci devono portare a conclusioni drastiche riguardo le prospettive per i prossimi anni e soprattutto sulle risposte che necessariamente il movimento operaio dovrà mettere in campo per non venire massacrato dalla crisi. Questo scenario infatti implica una prospettiva di scontro frontale con il padronato in un termine di tempo assai prossimo. L’industria italiana è letteralmente schiacciata dalla concorrenza. Il padronato italiano non ha la forza per scaricare all’esterno le proprie contraddizioni, a spese dei propri concorrenti; saranno pertanto costretti a “risolvere” i propri problemi all’interno, dichiarando guerra ai lavoratori. Non si parla di misure marginali, ma di un’offensiva su vasta scala; e non a caso si parla di un nuovo patto sociale paragonabile ai famigerati accordi di luglio (1992-93) che nel giro di pochi mesi privarono la classe operaia italiana di diritti storici quali la scala mobile, avviarono lo smantellamento delle pensioni di anzianità, ingabbiarono i contratti nazionali di lavoro nella concertazione, prepararono la strada all’esplosione del precariato.
8.
Non c’è via d’uscita se non lottando per:
Misure drastiche di controllo dei lavoratori (e anche degli utenti, per esempio nel caso delle aziende che forniscono servizi universali quali acqua, energia, trasporti, telecomunicazioni, ecc.) devono essere applicate in tutte quelle aziende che minacciano chiusure, delocalizzazioni, fuga di profitti, di macchinari e di tecnologie. Tali misure devono comprendere punti quali: apertura dei libri contabili, controllo su assunzioni e licenziamenti, forme di controllo sulla produzione, sulla commercializzazione, sugli investimenti, sull’orario di lavoro.
Laddove questo non sia sufficiente, il controllo operaio deve portare all’esproprio vero e proprio delle aziende, senza indennizzo se non verso i piccoli azionisti. Di fronte a crisi come quella della Fiat, o a delocalizzazioni che lasciano il deserto produttivo, espropriare l’azienda prima che venga ridotta a una scatola vuota è una misura difensiva indispensabile per potere costruire qualsiasi proposta alternativa sul piano industriale. Lo stesso vale per quei settori industriali strategici che sono stati fatti a pezzi con le privatizzazioni per essere poi chiusi o svenduti ai privati.
9.
La crisi della finanza pubblica e la camicia di forza costituita dai vincoli di Maastricht imporranno inevitabilmente misure drastiche anche sul piano della finanza pubblica. Nei prossimi anni ci verrà presentato un conto assai salato per l’ennesimo “risanamento” delle finanze statali. L’unica alternativa è non riconoscere i diritti della grande rendita capitalista che negli ultimi dieci anni ha incassato 1.090 miliardi di euro spremuti dalle nostre tasche, con la svendita del patrimonio pubblico e con l’attacco ai servizi sociali. Una politica autenticamente alternativa significa rompere con queste compatibilità, rendendo nominativo il possesso dei titoli di stato e prospettando anche l’eventualità di non ripagare una parte del debito in mano alle grandi istituzioni finanziarie, tutelando ovviamente il risparmio delle famiglie. Sarà indispensabile prendere in mano leve decisive di controllo finanziario che oggi sono in mano alla Banca centrale europea e alle altre istituzioni dell’Unione europea. Di per sé la rottura con l’euro non risolverebbe nessuno dei problemi di fondo del capitalismo italiano. Il problema non è scegliere fra integrazione o protezionismo su basi capitaliste. Il cuore del problema è la lotta per il controllo sull’economia; in questo quadro, è chiaro che un sindacato che voglia realmente difendere gli interessi dei lavoratori e dei settori popolari si troverebbe inevitabilmente in un conflitto frontale con le istituzioni finanziarie europee, dovrebbe disconoscere il patto di stabilità e rifiutare l’applicazione delle varie normative europee che impongono flessibilità, privatizzazioni, ecc.
10 .
La politica che il sindacato ha contrapposto finora alle numerose crisi industriali che si sono già verificate nel corso degli ultimi anni si è dimostrata insufficente. Alla richiesta di esuberi si contrappone generalmente la controproposta di un piano industriale all’interno del quale trovano ci sono proposte come la Cassa integrazione straordinaria per qualche anno (salvo poi accorgersi che i fondi finiscono) per “riqualificazioni produttive” che anche in altri contesti si sono rivelate un fallimento; oppure si richiedono monetizzazioni più o meno onerose per la “buonuscita” volontaria o prepensionamenti che risultano sempre più spesso irti di ostacoli visto il notevole ricambio generazionale della classe operaia e dato l’innalzamento dell’età pensionistico avvenuto con le controriforme previdenziali degli ultimi 10 anni. In altri casi si propongono riorganizzazioni contrattuali nelle quali sono i contratti “flessibili” a farla da padrone. Il pacchetto anticrisi si è rivelato debole perché non si pone come obbiettivo primario la salvaguardia dei posti di lavoro ma la concertazione degli esuberi. Così facendo non c’è via d’uscita alla moltiplicazione delle firme da apporre alle chiusure e alle espulsioni di massa dei lavoratori.
11.
Un sindacato che voglia realmente difendere i lavoratori deve partire da un punto imprescindibile: nessun posto di lavoro deve essere messo in discussione. Nella misura in cui il padrone annuncia la crisi aziendale e i conseguenti esuberi, o addirittura la chiusura, l’unica strategia che si mette in campo non può essere quella di aprire una trattativa sul numero degli esuberi o in caso di chiusura proporre la ricerca di un nuovo padrone e la ricollocazione dei lavoratori in altre aziende. La riduzione d’orario di lavoro a parità di salario, la ridistribuzione del lavoro tra tutti i lavoratori della stesso stabilimento e tra tutti gli stabilimenti, sono strumenti adeguati a permettere ai lavoratori di mantenere il proprio posto di lavoro.
12.
I soldi che sono stati ricavati dallo sfruttamento dei lavoratori in questi anni devono essere usati per uscire dalla crisi senza che in nessun modo i lavoratori ne paghino il prezzo.
Le merci che si producono hanno un utilità per la collettività e sono gli operai che permettono alle fabbriche di continuare a produrre, mentre i padroni sono solo dei parassiti che vivono sulle spalle dei lavoratori. Se queste aziende venissero espropriate questo non sarebbe assolutamente un furto ma la semplice restituzione del maltolto. Non dobbiamo dimenticare che mentre la Fiat ha licenziato in questi decenni decine di migliaia di lavoratori contemporaneamente si è intascata oltre 232 mila miliardi di vecchie lire dallo stato tra incentivi, sgravi e prestiti a fondo perduto. Ha acquistato per un tozzo di pane l’Alfa Romeo di Arese per smantellarla e specularci sopra vendendo e affittando i terreni con un ricavo 100 volte superiore al prezzo pagato. La Fiat è dei lavoratori che l’hanno già abbondantemente pagata e ripagata più volte.